Quando Napoli imbracciò le armi contro l’invasore

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Bombardata dagli Alleati, che avevano raso al suolo buona parte delle strutture e degli edifici della zona portuale, mietendo migliaia di vittime tra la popolazione civile. Occupata dalle truppe tedesche, in fuga da Salerno sotto l’incalzare dell’armata anglo-americana. Si presentava così Napoli, settant’anni fa. Nel settembre del 1943. Una città contesa, offesa. Distrutta e martoriata da tre anni di guerra.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre e i combattimenti sanguinosi che si erano succeduti sui litorali di Paestum, Agropoli, Battipaglia e Montecorvino, l’antica capitale aspettava con il fiato sospeso il momento della tanto sospirata liberazione. In città si vivevano ore di ansia e di trepidante attesa: gli alleati avanzavano da Sud, in direzione Roma. Ma la loro marcia veniva tenacemente contrastata dalle divisioni del Reich. Ancora venti giorni dopo lo sbarco di Salerno, gli Alleati erano piuttosto distanti da Napoli. E i tedeschi, decisi sì ad abbandonare Partenope ma non senza prima averla rasa al suolo (fedeli al diktat diramato da Hitler che, dal suo bunker di Berlino, aveva ordinato di “ridurre in fango e cenere Napoli”), non lesinavano maltrattamenti ai danni della cittadinanza.[charme-gallery]

Episodi di intolleranza. Vere e proprie angherie cui faceva da contraltare la tenace resistenza opposta dai partenopei. Così, nel pomeriggio del 27 settembre, stanca di subìre, stanca di assistere a rastrellamenti e fucilazioni di innocenti, Napoli insorse contro le truppe del comandante Walter Schöll, l’ufficiale tedesco che aveva proclamato il coprifuoco dichiarando lo stato d’assedio con l’ordine di fucilare tutti coloro i quali avessero osato alzare un dito contro i soldati del Reich. “Ogni soldato germanico ferito o trucidato verrà rivendicato cento volte”, recitava un bando emblematico.

La battaglia esplose fulminea all’alba del 28 settembre al Vomero, dove, all’interno del locale campo sportivo, erano stati ammassati i prigionieri destinati al lavoro coatto, rastrellati dalle forze tedesche. In località masseria Pagliarone, lungo l’attuale via Belvedere, un drappello di armati bloccò un’automobile tedesca uccidendo il maresciallo che ne era alla guida. Poi il focolaio si propagò, appiccando altri incendi in varie parti della città. In maniera spontanea. Senza alcun collegamento.[charme-gallery]

Tra quanti, in quei giorni, imbracciarono fucili e pistole, vi furono anche decine  di ragazzi e scugnizzi, molti dei quali destinati a perdere la vita nei combattimenti. Il popolo reagì come meglio poteva. Dai balconi e dalle finestre, la gente buttava giù di tutto addosso ai tedeschi: pentole, materassi, oggetti. E le barricate venivano innalzate un po’ ovunque, nel tentativo di bloccare l’avanzata dei carri armati della Wermacht. Si combatté a Materdei, a Port’Alba, in via Foria, a Capodimonte, a Porta Capuana, in via Pigna a Soccavo. Per quattro lunghissimi giorni. Con grande spargimento di sangue.

Il 30 settembre, le truppe tedesche abbandonarono Napoli, lasciando la città in mano agli insorti. Il giorno dopo, alle 9.30, i primi Sherman dell’esercito alleato potevano fare il loro ingresso nelle strade di Partenope, trovandola già sgombra di tedeschi. Napoli fu una delle poche città della Penisola ad essersi liberata da sola, grazie al coraggio e all’eroismo dei suoi abitanti . Il bilancio delle “Quattro Giornate” fu tremendo (dai registri del cimitero di Poggioreale, risultano infatti 562 caduti, anche se la Commissione ministeriale ne calcolò “solo” 155 e alcuni storici poco più di 300, tra partigiani e civili). Ma servì a dimostrare di che pasta erano fatti i partenopei. E di quale orgoglio era dotata la perla del Golfo, città insignita della medaglia d’oro della Resistenza italiana.