Isolotti e scogli. Sentinelle di pietra costellate di vegetazione: luoghi di antiche e sfarzose residenze. Ne è costellato il mare di Ulisse, dalla costa delle Sirene fino alla terra del Mito. Li Galli a Sorrento, Nisida a Napoli, Vivara a Procida: pezzi di terra strappati alle onde. Utilizzati, più di duemila anni fa, dai coloni della Magna Grecia come trampolino di lancio per i futuri insediamenti sulla terraferma. E poi trasformati, nel corso dei secoli, in mete ambite da vacanzieri e personaggi illustri del jet set internazionale. E’ questo il caso del più famoso degli isolotti della Campania Felix: lo scoglio di Megaride. Fu qui, a Napoli, dove oggi sorge Castel dell’Ovo che, secondo la leggenda, venne ad arenarsi il corpo senza vita della sirena Parthenope. E fu sempre qui, tra il IX e l’VIII secolo a.C., che i rodiesi stabilirono un emporio commerciale, gettando così le basi per la nascita di una Nuova Polis, poi tenuta a battesimo dai Cumani e destinata, successivamente, a passare alla storia con il nome di Neapolis. Su questo stesso isolotto, oggi collegato alla terraferma grazie a una sottilissima striscia di terra, nel I secolo a.C., Lucio Licinio Lucullo fece costruire una splendida villa la cui memoria perdurò fino all’età tardo romana a tal punto che l’isolotto, ancora alle soglie del Medio Evo, veniva ricordato con il nome di Castrum Lucullanum. A quanto pare il celebre generale di Augusto passato alla storia per la sontuosità dei suoi pranzi, ebbe anche una seconda “dependance” in terra di Partenope, assieme a quella fatta costruire sulle balze di Megaride: a Nisida, per la precisione, un’altra delle perle marine di Neapolis. Chiamato dai greci “Nesís” (isola) ma anche Nesida (piccola isola), questo piccolo scoglio ospitò, molto probabilmente, anche una seconda villa appartenuta, a quanto pare, a Marco Giunio Bruto, uno degli assassini di Giulio Cesare. Bruto fu anche lo sposo di Porzia, coraggiosa figlia di Catone l’Uticense. La leggenda narra che la donna, dopo la sconfitta del marito nella battaglia di Filippi, decise di suicidarsi ingoiando carboni ardenti.[charme-gallery] E che la sua drammatica morte avvenne proprio a Nisida. In epoca angioina, l’isolotto fu dotato di una rocca di avvistamento che, successivamente, ulteriormente fortificata e modificata, divenne un solido caposaldo nel sistema difensivo di Napoli pianificato dal vicerè Don Pedro de Toledo. Nel 1626, l’allora viceré Antonio Álvarez de Toledo trasformò il castello in lazzaretto per gli ammalati di peste. Sotto i Borbone, il maniero fu adibito all’internamento dei prigionieri politici. Per poi diventare, dal 1934, sede di un penitenziario minorile tuttora in funzione. Nisida viene inserita dai geologi nel novero del cosiddetto arcipelago flegreo, un gruppo di isole di cui fanno parte anche Ischia, Procida e Vivara. E proprio quest’ultima merita un discorso a parte per la ricchezza dei reperti archeologici che vi si nascondono. Vivara, dal latino vivarium (vivaio), isolotto di origine vulcanica, sorge a un tiro di schioppo dal promontorio di Santa Margherita e dal 1969 è collegata a Procida con un ponte. Negli anni ’30, durante uno scavo a Punta Capitello, vennero alla luce alcuni reperti risalenti addirittura all’età del Bronzo, il che ha fatto di questo lembo di terra proteso nel Tirreno uno dei più antichi insediamenti dell’intera Campania Felix. Ulteriori scavi, in località Punta d’Alaca, hanno confermato questa tesi recuperando le tracce di un’attività legata alla lavorazione del metallo. Vivara, dunque, tra la fine del XVIII e gli inizi del XVII secolo a.C., avrebbe ospitato un ricco insediamento e con tutta probabilità anche un polo di lavorazione di metalli e manufatti pregiati, diventando un importante scalo commerciale per i traffici marittimi che si svolgevano in quell’area. Oggi a Vivara, che al tempo del Regno delle Due Sicilie fu utilizzata come riserva di caccia, è possibile visitare un antico edificio costruito nel 1681 dal duca de Guevara e successivamente utilizzato dai re Borbone come casetta di caccia.[charme-gallery] Dal 1974 lo scoglio è stato dichiarato oasi protetta per la fauna stanziale e migratoria, sotto l’occhio vigile della Protezione Civile, cui spetta il compito di vigilare e preservare la sua integrità. A poca distanza dalle rotte flegree del Golfo, nel vicino specchio d’acqua di Posillipo, svetta un altro spicchio di terra legato alla storia di Partenope: l’isolotto della Gajola, un altro dei paradisi nascosti di Napoli. Il suo nome trae origine dalle cavità che costellano la vicina costa (dal latino cavea: “piccola grotta”). Nei secoli della colonizzazione greca, la Gajola ospitò un tempietto dedicato alla dea “Euplea”, ritenuta la protettrice dei naviganti. Per poi diventare, con l’arrivo dei romani, tutt’uno con il vicino complesso architettonico della sfavillante villa Imperiale di Pausilypon, appartenuta al liberto romano Publio Vedio Pollione (I secolo a.C.). I resti di quella dimora (porti, ninfei e peschiere), sommersi a causa dello sprofondamento della crosta terrestre (bradisismo), sono tuttora visibili sui fondali del mare e sulle balze della vicina collina, nel parco sommerso della Gajola, un’area marina protetta di 42 ettari che si estende dal Borgo di Marechiaro fino alla Baia di Trentaremi, istituita nel 2002. Una leggenda popolare, tuttora in voga a Napoli, considera la Gajola una sorta di “isola maledetta”, per la morte prematura e la sventura che ha accomunato, nel corso degli anni, tutti i suoi proprietari. A partire dagli anni Venti del ’900, con Hans Braun, il quale fu trovato privo di vita e avvolto in un tappeto (di lì a poco, la moglie affogò in mare) fino al patron della Fiat, Gianni Agnelli che, una volta messo piede sull’isola, subì la morte di molti familiari. Messo all’asta, oggi l’isolotto napoletano appartiene alla Regione Campania. Dal promontorio di Posillipo a Monte di Procida, il passo è breve: identica l’area, quella flegrea. Identico il mare che la bagna: quello di Napoli. E’ qui, a non molti chilometri di distanza dall’antica capitale, che svetta l’isolotto di San Martino, una piccola e suggestiva striscia di terra collegata alla costa attraverso uno stretto tunnel (privato) e un pontile. E’ probabile che lo scoglio, un tempo, fosse un tutt’uno con la costa e che, a partire dal XVI secolo se ne sia staccato a causa di un terremoto dovuto all’attività sismica dei Campi Flegrei. [charme-gallery]Non a caso l’incantevole lembo di paradiso con vista mozzafiato sul mare è costituito principalmente di un materiale molto utilizzato nell’edilizia, un materiale tipico dei Campi Flegrei perché di origine vulcanica: la pozzolana. Per secoli, San Martino è stato utilizzato dai procidani come base per la pesca del tonno. In piena Prima Guerra Mondiale, per la sua posizione, ha ospitato anche uno stabilimento industriale per il collaudo dei siluri. Poi, una volta dismessa la funzione bellica, a partire dagli anni ’60, è diventato una delle mete turistiche del litorale flegreo. Luogo ideale per sub, pescatori, innamorati e amanti della natura, attratti da un fondale marino da favola e da una terra ricca di vegetazione. Infine, un’altra perla del mare di Ulisse: il celebre arcipelago de Li Galli, nel territorio comunale di Positano, pochi chilometri a sud della Penisola Sorrentina. Tre, in tutto, le isole che lo compongono: Gallo Lungo, La Rotonda e Dei Briganti (o la Castelluccia). Tutte e tre parte integrante dell’Area Marina Protetta di Punta Campanella. L’isolotto del Gallo Lungo è il più grande del lotto ed è stato anche l’unico ad essere stato abitato fin dai tempi dell’antica Roma. Fu il geografo greco Strabone, nel I secolo a.C. a descrivere per la prima volta le tre “vette” identificandole come sedi delle sirene e dando loro il nome di Sirenai o Sirenussai. Secondo la mitologia, infatti, l’arcipelago offrì rifugio proprio a Partenope, Leucosia e Ligia le mitiche sirene che invano tentarono di ammaliare Ulisse con il loro canto. E che, secondo la tradizione, contrariamente a quanto si crede oggi, avevano un corpo metà di donna e metà di uccello. Dunque erano pennute. Da qui l’accostamento alla gallina (o al gallo). E quindi l’origine stessa del nome “Li Galli”. Tra l’altro fu proprio in quel tratto di mare che, a causa delle forti correnti marine, in epoca greca e romana, si verificarono paurosi naufragi. Lo testimoniano i numerosi reperti che, di tanto in tanto, ancora oggi i fondali del mare restituiscono alle reti dei pescatori e alla gioia degli archeologi. Da qui il mito stesso delle sirene tentatrici che in quello specchio d’acqua tendevano tranelli ai timonieri mandandoli a fracassarsi contro gli scogli. Nel 1225 Federico II di Svevia donò Li Galli al monastero di Positano denominandoli “tres Sirenas quae dicitur Gallus”. Gli isolotti di Positano hanno da sempre esercitato un grande fascino su vip e personaggi famosi. E nel ventesimo secolo sono balzati al centro dell’attenzione pubblica per la celebrità dei proprietari che li hanno acquistati e – per periodi più o meno lunghi – abitati. Il primo di questi fu il famoso coereografo e ballerino Leonide Massine, seguito dall’indimenticato Eduardo De Filippo e, infine, da un altro celebre ballerino russo, Rudolf Nurejev.