Cappella Sansevero, il marmo trasparente che soffre

9230

Tra scienza e superstizione, la storia del “principe alchimista” non ha mai smesso di affascinare i napoletani e i turisti che visitano Napoli. Ancora oggi quando qualcuno nomina Raimondo di Sangro c’è chi, in città, si fa il segno della croce. Del resto, non si può dire che il nobile di Sansevero abbia lasciato un bel ricordo di sé. Stregone, adoratore del demonio, scienziato folle e senza scrupoli, sulla sua figura si racconta di tutto. E gli aneddoti si sprecano. Eppure, proprio al suo casato è intitolata una delle sue opere d’arte più belle della Napoli settecentesca da visitare, la celebre cappella di Sansevero, nata come sepolcreto del palazzo dei duchi di Sangro, a pochi metri da piazza San Domenico Maggiore. C’è una leggenda che racconta come fu edificata. Verso la fine del XVI secolo si trovò a passare, da quelle parti, un uomo innocente. Era in manette. Le guardie lo stavano portando in carcere. Al suo passaggio, parte del muro che circondava il giardino del palazzo crollò facendo riaffiorare un dipinto della Madonna nell’atto della deposizione. Fu così che intorno al 1590, Giovan Francesco di Sangro, duca di Torremaggiore, obbedendo a un voto fatto durante una malattia, decise di costruire proprio in quella parte di giardino, una piccola cappella dedicata alla Vergine. Da quel giorno l’edificio prese il nome di Santa Maria della Pietà o “Pietatella”. E’ soltanto nel 1700, tuttavia, grazie all’opera del sesto principe di Sansevero, Raimondo di Sangro, che la struttura raggiunge l’attuale splendore, legandosi alla fama del suo mecenate, fino a cambiare nome e ad assumere quello con cui oggi è conosciuta in tutto il mondo.[charme-gallery] Tra sculture, ritratti e sepolcri di famiglia, due statue rendono l’edificio dedicato alla Madonna un vero e proprio museo della scultura napoletana del XVII secolo: quella della “Pudicizia”, opera di Antonio Corradini scolpita nel 1751 in memoria di Cecilia Gaetani, madre di Raimondo di Sangro, e il bellissimo “Cristo Velato” di Giuseppe Sammartino (1753), una delle maggiori personalità artistiche del settecento napoletano. Scultura, la sua, di straordinaria fattezza. A ben guardarlo, infatti, sembra addirittura che Gesù respiri sotto quel manto trasparente di cui è ricoperto. E pare ancora soffrire sotto il sudario che avvolge, come mosso dal vento, le piaghe del corpo trafitto. Il “Cristo Velato” affascina e colpisce il visitatore per la sua cruda realtà. Sotto il velo di morte, la vena che palpita sulla fronte di Gesù appare viva, come i fori della crocifissione e le mani distese. Il costato, scavato dalla lancia  romana, è lì che spicca, contro i bordi del velo, neanche fosse tracciato a mano. Cristo Velato, ma anche messo a nudo, quasi fosse stato appena deposto dalla croce. Un’evocazione drammatica, di incommensurabile fascino, che anima il figlio dell’Uomo, trasformandolo in simbolo del destino e riscatto dell’umanità. Insieme al capolavoro del Sammartino, altre due sculture fanno bella mostra di sé nelle stanze della Cappella Sansevero. Basta recarsi nella sacrestia dove sono esposte due macchine anatomiche che riproducono perfettamente il corpo di un uomo e di una  donna, frutto – racconta la tradizione –  degli esperimenti diabolici del principe di Sangro e del suo collaboratore, Giuseppe Salerno. I due manichini furono rinvenuti in un locale sotterraneo della cappella subito dopo la morte di don Raimondo, avvenuta nel 1771. Appaiono rivestiti dell’intero sistema venoso ed arterioso, e di vari organi. La leggenda vuole che si tratti di persone morte accidentalmente, cui il principe alchimista iniettò una sostanza “sconosciuta” capace di pietrificarne vene, arterie, vasi capillari e alcuni organi. Ma è chiaro come si tratti solo di manichini. Sculture, insomma, sia pure incredibilmente somiglianti a un vero e proprio corpo umano.