Nei segni dell’arte i misteri più reconditi (parte seconda)

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Abbiamo parlato di Virgilio nella prima parte dell’articolo già pubblicato. E non a caso. Si sa che a Posillipo, secondo la tradizione, sorge il parco in cui si troverebbe la tomba del cantore dell’Eneide. Ma in pochi sanno che il grande poeta mantovano caro ad Augusto e morto in giovane età a Napoli, era raffigurato, in pieno Medioevo, come un vecchio barbuto, venerato e idolatrato come “Mago” e protettore di Partenope, sorta di antesignano di San Gennaro. Si narra che Virgilio, mentre zappava nella sua vigna, trovò sottoterra una bottiglia con all’interno imprigionati dodici diavoli. Costoro, in cambio della libertà, gli insegnarono tutti i segreti delle arti magiche e lui prese a tramandarli ai suoi iniziati e agli apprendisti stregoni in una scuola segreta di magia installata sull’isolotto della Gaiola, cuore dell’area marina sommersa in cui si possono ammirare i resti di antiche costruzioni romane. L’isola è al centro di un mistero che le ha fruttato il soprannome di “isola maledetta”. Pare, infatti, che tutti coloro che l’abbiano abitata siano morti prematuramente in circostanze alquanto strane. Non a caso oggi l’isola è disabitata.

I misteri di Napoli non si limitano comunque alle sue sole viscere o ai sotterranei inesplorati di un antico castello. A pochi passi da piazza San Domenico Maggiore, sorge uno dei monumenti più famosi di tutta la città: la Cappella Sansevero. Ci troviamo nel cuore di Napoli. In pieno Centro Storico dove si può decifrare il passato di Partenope semplicemente leggendone i segni, a partire dal non distante quartiere di Forcella, che in antichità era sede di una Scuola Pitagorica.

Il nome stesso “Forcella”, è sinonimo di biforcazione. E la lettera che lo indica è la “Y”, guarda caso sacra proprio alla scuola di Pitagora, nonché storicamente presente nello stemma araldico del Sedile di Forcella, uno dei Seggi in cui la città era suddivisa ai tempi del Regno Borbonico. Imboccando Spaccanapoli, prima di raggiungere lo scrigno del Cristo Velato, capita di imbattersi nella statua del Nilo Giacente, figura distesa e discinta, languida nelle sue pose classiche, dal volto di un uomo barbuto, che ricorda come ai tempi dell’impero romano fossero presenti e ben consolidate in città forti elementi di cultura e riti egizi.

Oltrepassato questo lembo di Partenope si arriva dunque alla celebre Cappella del principe di Sansevero, personaggio eclettico ed erudito, nobile settecentesco, appassionato di esoterismo e di alchimia. L’interno dell’edificio, secondo molti studiosi, nasconderebbe nei suoi dettagli una complessa simbologia ermetica ed esoterica. A partire dalla statua stessa del Cristo Velato del Sammartino che troneggia praticamente al centro della chiesa. L’impatto emotivo in chi guarda questa scultura è a dir poco sorprendente. Quel velo adagiato sul corpo di Gesù, infatti, ha un realismo sorprendente. Sembra quasi vero. E a voler dar retta alla leggenda, perché è di questo che si tratta, pare che non sia stato neanche scolpito con un normale procedimento marmoreo, bensì con l’aiuto dell’arte alchemica di cui il padrone di casa era esperto. A tal punto che si addebita proprio a don Raimondo il modo per trasformare la stoffa in marmo. Vera o falsa che sia la leggenda, quel che è certo è che l’intera cappella sembra un connubio perfetto di arte, scienza e superstizione.

Basta recarsi nella sacrestia dove sono esposte due macchine anatomiche che riproducono perfettamente il corpo di un uomo e di una  donna, frutto – racconta la leggenda –  degli esperimenti diabolici del principe di Sangro e del suo collaboratore, Giuseppe Salerno. I due manichini furono rinvenuti in un locale sotterraneo della cappella subito dopo la morte di Raimondo, avvenuta nel 1771. Appaiono rivestiti dell’intero sistema venoso ed arterioso, e di vari organi. La leggenda vuole che si tratti di persone morte accidentalmente, cui il principe alchimista iniettò una sostanza “sconosciuta” capace di pietrificarne vene, arterie, vasi capillari e alcuni organi. Ma è chiaro come si tratti solo di manichini. Sculture, insomma, sia pure incredibilmente somiglianti a un vero e proprio corpo umano.

Ma i veri indagatori dell’occulto, sculture a parte, trovano pane per i loro denti semplicemente dando un’occhiata al pavimento della Cappella: è disegnato con un labirinto costituito da croci gammate che si intersecano tra di loro. Un motivo tutto ancora da decifrare, di antichissima tradizione classica e ricco di rinvii alla sapienza ermetica, in cui sarebbero rappresentate le difficoltà che l’iniziato di turno deve compiere prima di approdare alla vera conoscenza.

Poco più in là rispetto a questo vero e proprio tempio del barocco napoletano sorge la chiesa del Gesù Nuovo, un altro dei capolavori eccelsi e indiscussi dell’arte sacra “made in Partenope”. Ma non è dei suoi tesori che si vuole parlare in questa sede, bensì della misteriosa facciata di blocchi di piperno incisi a forma di piramide, che ne addobbano l’ingresso. Si tratta dell’estremo retaggio del vecchio Palazzo dei duchi di San Severino, progettato dall’architetto Novello da San Lucano, e ultimato nel 1470, successivamente acquistato dai Gesuiti e quindi trasformato nell’odierna chiesa monumentale posta ad ovest del Decumano Inferiore.

Ognuno di questi blocchi reca incisa la firma del maestro lapicida, ricordo evidente, secondo alcuni esperti, della presenza di corporazioni muratorie nella Napoli del XV secolo, antesignane, secondo altri, della più moderna massoneria. Ma anche una vera e propria… composizione musicale, così come sostenuto dallo storico dell’arte Vincenzo de Pasquale, che avrebbe scorto, incisi nelle pietre a forma di diamante, una sequenza di sette lettere aramaiche. Sette segni, ognuno dei quali corrisponderebbe a una delle sette note che, lette da destra a sinistra, formerebbero una musica della durata di quasi tre quarti d’ora.

Resta ovviamente il mistero su chi sia stato a comporre quella musica e soprattutto perché abbia scelto di riportarla proprio sulla facciata del palazzo. E ancora: cosa voleva realmente rappresentare l’ignoto musicista con quello spartito di pietra? Mistero che attende ancora di essere svelato. Come quello legato al non distante obelisco dell’Immacolata (detto anche guglia dell’Immacolata), il più famoso degli obelischi di Napoli, situato al centro di piazza del Gesù Nuovo proprio di fronte alla “chiesa dei diamanti”.

La guglia fu eretta nel corso del ’600 per volere del gesuita padre Francesco Pepe su progetto di Giuseppe Genoino grazie a una colletta pubblica. Una curiosa leggenda narra che, con un certo gioco di luci e ombre, e in particolare quando su Napoli cala la sera, sulla sommità della scultura raffigurante la Madonna si vedrebbero comparire alcune figure blasfeme che qualcuno vorrebbe essere state scolpite, in gran segreto, assieme alla statua della Vergine. Come se non bastasse, alle spalle della Madonna, grazie a un gioco di prospettiva, parrebbe visualizzarsi addirittura l’immagine della morte con in mano la falce: realtà o immaginazione? Suggestione o estrema perizia di scultori iniziati al mistero delle arti occulte? Basta alzare gli occhi al cielo e controllare di persona.