Il pane nella storia, così rivive il gusto dimenticato di Pompei

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Li abbiamo visti rappresentati negli affreschi e nei bassorilievi degli Scavi antichi. Ma anche catalogati tra i reperti riportati alla luce nel sito archeologico più noto e affascinante del mondo: Pompei. Ora, da un’idea della Dieffe Comunicazione, grazie a Molino Caputo e allo chef Paolo Gramaglia, del ristorante “President” di Pompei, con il supporto del panificio Esposito, i Pani di Pompei potranno essere anche assaggiati. Nasce così l’evento “Molino Caputo presenta i Pani di Pompei”, un tentativo per avvicinare il moderno turista, quanto il più possibile, alla riproduzione dei pani consumati dagli antichi romani. Un viaggio nella storia, insomma. Ma anche e soprattutto negli usi e nei cibi dell’antica città fluviale nella quale vivevano circa 10.000 abitanti.

Una popolazione formata da diverse etnie e una civiltà in cui confluivano svariate tradizioni. Pompei, prima dell’eruzione del 79 d.C., contava 34 panificatori muniti di forni (i pistrina) e macine di pietra lavica, alcuni di essi forniti anche di banchi di vendita. Circa 5 tra questi erano considerati grandi panificatori (fino a 3 macine), altri, più piccoli, ne avevano una sola. Le macine erano fatte girare “a mano”, dagli schiavi o dagli asini. Da fonti letterarie e iconografiche (affreschi e bassorilievi) e da reperti archeologici (pagnotte carbonizzate), si sa che i tipi di pane più noti erano 10 (e che si producevano anche biscotti per i cani), suscettibili di una serie di varianti, che portavano alla produzione di un numero imprecisato di pani. Il primo pane prodotto era il più grezzo e il più duro. [charme-gallery]

Attorno al V secolo a.C., arrivarono, dalla Sicilia e dall’Africa, grani duri e teneri di qualità superiore che consentirono la produzione di pani e focacce di eccellente fattura. Il pane si diversificava per forma, destinatari, impasti e metodi di cottura. Il più pregiato era il panis siligineus, un pane bianco prodotto con farine superiori e destinato a consumatori ricchi. Si trattava di una pagnotta circolare, sulla quale erano già tracciate le linee per dividerla in otto parti. I romani non utilizzavano il coltello per tagliare il pane e così, uscita dal forno, poteva già essere divisa tra i commensali. Il panis artolaganus era, invece, considerato il pane delle feste. Con un impasto molto ricco che prevedeva la presenza di ortaggi, canditi, miele, olio e vino.

Assai ricco era anche il panis adipatus, “farcito”, come si intuisce dal nome, con lardo. Un pane più scuro, destinato alle classi popolari, era il panis cibarius, dalla forma allungata (tipo ciabatta) e prodotto con un mix di farina setacciata di orzo e farro. Ancora più “essenziale” del precedente, il panis secundarius: anch’esso di forma allungata e prodotto con farina integrale. Tra le tipologie più diffuse anche il panis bucellatus, un pane biscottato che prevedeva la cottura seguita da una “asciugatura” in forno caldo. Molto popolari anche le focacce, simili a quelle che mangiamo ancora oggi, e condite con olio e rosmarino e/o con olio e olive. Last but not least, il panis furfureus, un pane prodotto con la crusca e destinato ai cani. [charme-gallery]

L’attenzione destinata alla panificazione nell’antica Pompei è testimoniata anche dalle diverse cotture previste: oltre che nel forno tradizionale, il pane poteva essere cotto sotto la cenere, su un conduttore posto su fonte di calore (per esempio su un’anfora riscaldata, con successiva cottura del pane per induzione). Oppure in una pignatta che, al momento di servirlo, veniva rotta per “liberare” il prodotto.