Spettacoli dal sapore di morte nati nel Sannio

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Spartaco li guidò fino alla morte. La rivolta dei 70 gladiatori contro Roma partì da Santa Maria Capua Vetere e fini in un lago di sangue. Così si concluse la clamorosa ribellione alla lotta continua tra la vita e la morte, all’immagine polverosa di uomini e animali che si affrontano producendo l’odore acre del sangue che sgorga abbondante nell’arena. Uno spettacolo di rara violenza, cui il popolo romano assisteva con incontrollabile impeto nei numerosi anfiteatri della Campania, che oggi ne conta ben tre visitabili. Senza distinzione di razza o di sesso (la lotta tra donne era molto richiesta), i combattenti potevano essere  professionisti, condannati, schiavi o prigionieri, purché gli spettacoli gladiatori (munera) fossero cruenti. Catturata in tutto l’impero, ogni bestia feroce, elefanti, orsi, tori e leoni, faceva il suo ingresso negli anfiteatri per dar luogo alle acclamate battaglie tra fiere e gladiatori (venationes). Questo era lo scenario che si offriva alla vista dei 20 mila spettatori che, attirati dagli  edicta (cartelloni dei gioghi gladiatori) dipinti in rosso sulle mura della città, correvano a prender posto nell’Anfiteatro di Pompei (edificato verso il 70 a.c.). Il visitatore moderno, che sale fin sull’ultima gradinata (la summa cavea, l’unica alla quale avevano accesso anche le donne) di quest’ultimo, oggi utilizzato anche per rappresentazioni teatrali, resta affascinato dall’ampiezza dell’arena sottostante, in cui sembra di poter ancora sentire lo stridio delle lame che si affrontano.[charme-gallery] Il combattimento poteva assumere caratteri di inaudita violenza quando anche cento gladiatori si affrontavano insieme nell’arena: reziari, armati di rete e tridente contro mirmillioni, i cosiddetti “carri armati” della gladiatura, infuocavano gli animi degli spettatori tanto da provocare feroci risse, come quella scoppiata nel 59 d.c. tra “tifosi” pompeiani e nocerini. Al centro dell’arena, sulle gradinate della cavea e finanche fuori l’anfiteatro la sanguinosa rissa che provocò centinaia di morti e feriti costò all’anfiteatro una “maxisqualifica” (così titolerebbero oggi i giornali sportivi) per dieci anni. Che ci si ritrovasse sulle gradinate di pietra rivestite di bianco marmo dell’Anfiteatro di Benevento, costruito all’epoca di Nerone o nell’Anfiteatro campano di Santa Maria Capua Vetere (I sec.d.c.), il combattimento tra gladiatori ha sempre avuto lo stesso sapore di sangue e morte. Raggiunto il centro dell’arena dell’Anfiteatro campano, ancora oggi sembra ancora di poter sentire le urla dei 40 mila spettatori che, distribuiti sui tre ordini della cavea (il popolino in alto, le persone più distinte al centro, tribuni, senatori, sacerdoti, magistrati e cavalieri in basso), incitavano i combattenti a quella che era una vera e propria guerra, mentre dalle diverse botole venivano issate, attraverso carrucole e argani, le gabbie con le belve. Proprio dalla scuola per gladiatori dell’anfiteatro di Santa Maria,  una tra le più rinomate, evasero  i settanta gladiatori che, guidati dal tracio Spartaco, diedero corpo alla rivolta dei gladiatori contro Roma. I fuggitivi, ai quali si unirono 70 mila schiavi, dopo essersi accampati sul Vesuvio ed aver resistito per giorni all’attacco romano, capitolarono nella zona del Sele, dove Spartaco stesso trovò la morte. La presenza di ancora altri due anfiteatri in territorio casertano testimonia la grande diffusione che l’arte gladiatoria, originaria del Sannio e ben presto adottata dai Romani, ebbe in tutte le città conquistate.[charme-gallery] Un luogo che, seppur carico di storia, non lascia intravedere che qualche struttura di sostruzione in opus incertum è l’Anfiteatro di Sessa Aurunca, fondato in epoca tardo-romana. Quasi a compensare la perdita del tempo che fu, il territorio casertano restituisce parte dell’Anfiteatro di Alife (eretto in età augusto-tiberiana), rimasto sepolto nel terreno e scoperto solo nel 1976, quando il disegno dell’erba medica stagionale che cresce sui campi della pianura alifana ha lasciato intravedere la sua sagoma, permettendo di riportare alla luce la fossa scenica dell’arena. Dalle urla che incitavano a morte i gladiatori sconfitti, al silenzio che avvolge oggi i sotterranei dell’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli (costruito in età neroniana), il viaggio nel gioco della morte continua nel vero cuore dello “stadio” flegreo, dove, quasi duemila anni fa, San Gennaro fu incarcerato con i suoi compagni per esser dato in pasto alle belve (ma diverso era il suo destino: inginocchiatesi al suo cospetto le fiere si rifiutarono di sbranare il Santo che fu decapitato per mano dei giustizieri dell’imperatore Diocleziano). Due ripide rampe riconducono al centro dell’arena dove paura, coraggio e speranza animarono gli ultimi attimi di vita di molti gladiatori che restano impregnati nelle pietre. Se ascoltate con la giusta sensibilità, anche solo queste sono in grado di raccontare tutta la storia.